A maggio avevo scritto un post sul sapersi accontentare (qui). Avevo parlato saggiamente, ma ahimè, durante l'estate non mi sono comportato in accordo a quelle parole e l'ho fatto, ripetutamente, proprio di fronte all'ultima persona al mondo con cui avrei voluto commettere tale errore. Evidentemente quel post era frutto di una comprensione razionale, ma non profondamente interiorizzata.
Mi è arrivata allora una di quelle lezioni che si incidono nella coscienza come acido nella carne: a fondo.
E ho imparato. Non mi lamenterò mai più di non potere stare abbastanza con una persona o avere poco di qualcosa che mi rende felice. Perché ora so che può arrivare il giorno in cui rimpiangerò quel "poco" che ora sarebbe tanto, e mi pentirò di non esserne stato grato come avrei dovuto.
Perché non ci si accontenta? Perché proprio quando qualcuno o qualcosa ci rende felici, tendiamo a scivolare, spesso senza avvedercene, nell'errore di credere che la nostra felicità dipenda dalla presenza di quel qualcuno o qualcosa; dimenticando che l'unica vera felicità, forte e stabile, è quella data dal percepire la presenza attorno a noi della Divinità e tornare a compenetrarci in Essa.
C'è di bello inoltre che era da almeno cinque anni che non mi sentivo in cambiamento come mi sta succedendo ora, e a una tale velocità. E soprattutto che sento riaprirsi in me una finestrella che si affaccia su Dio. Perché se è vero che ho scritto un libro proprio attorno a una frase che recita "nessuno ha il potere di renderci felici o infelici: siamo noi stessi i soli responsabili della nostra felicità", mi avvedo ora che la nostra responsabilità sta in primis nel discernere l'unica e autentica Fonte di ogni felicità possibile.
Concludo con una parabola Sufi di Shaikh Muhammad Nazim al-Haqqani, molto in tema.
Una volta c’era un cavaliere. Mentre camminava trai suoi giardini, in compagnia del suo servitore vide un cocomero cresciuto nella sua vigna. Lo tagliò e ne assaggiò un pezzetto: trovando il primo pezzo amaro, lo sputò e lasciò il resto al suo servitore che ne disponesse come voleva. Ma invece di gettarlo via, lo mangiò tutto. Il cavaliere, stupito disse: “Come hai potuto mangiarlo, non era amaro?” Ora dalla risposta del servitore avrebbe ricavato una buona lezione: “Oh maestro mio, così tante volte ho mangiato le cose buone elargite dalle vostre mani generose, se una volta mi avete dato qualcosa d’amaro mi sono vergognato di buttarla via. Perciò l’ho mangiata.” Le parole di quel servitore contengono una lezione che può esser sufficiente per tutto il corso delle nostre vite, e servire come base per stabilire una relazione adeguata tra noi e il nostro Signore.