Nell'inverno a cavallo tra il 1980 e il 1981 avevo 16 anni, per prendere le mie prime e uniche lezioni di chitarra, una volta a settimana cambiavo due autobus e arrivavo dall'altra parte della città, in Via Bramante. Il Maestro Dell'Aira era un simpatico signore coi baffi alla Salvator Dalì, longilineo e dinoccolato, che per introdurmi all'arte delle sei corde mi insegnava brani degli anni '60 come Apache, Pietre, Paese mio, Montagne verdi e così via. Che impresa riuscire a prendere un barrè pulito! Non potevo certo immaginare che di lì a pochi anni avrei spostato senza fatica il La maggiore lungo tutta la tastiera usando solo due dita. E ancora meno potevo sapere che, due piani sopra l'appartamento dove andavo a imparare a suonare viveva, una ragazza quindicenne di nome Daniela...
Nell'inverno del 1991 facevo l'obiettore di coscienza in un gruppo appartamento per disabili: prestavo assistenza e convivevo assieme a loro. Mi ci ero trasferito da poco, ai primi di dicembre, e avevo ancora 9 mesi di servizio da completare. Un giorno verso la fine febbraio, mi trovavo nel soggiorno, l'ora morta tra le pulizie del pomeriggio e la cena, seduto al lungo tavolo da 14-16 coperti, a preparare un esame d'università e nessuno a ronzare intorno. Sentii la serratura della porta d'ingresso girare, voci, mi voltai e salutai Francesco, uno dei volontari che veniva ogni giorno a dare una mano in comunità. Lo accompagnava una ragazza bionda, alta, con gli occhiali sul naso e un'aria un po' svagata sulle spalle. Non la conoscevo, presentazioni, si chiamava Daniela, ciao piacere io Daniele, sorriso, poi feci per rimettermi a leggere e lei per andare con Francesco a riprendere il loro discorso. Ma l'occhio le cadde sul libro aperto davanti a me, Psicologia Generale del Canestrari: cominciò a farmi un mucchio di domande sul perché e percome lo studiassi. Lei era neolaureata in psicologia. Finì che si fermò a cena e che poi restammo a chiacchierare fino all'una come vecchi amici, solo mezz'oretta di pausa poco prima di mezzanotte, quando dovevo coricare ed assistere la persona tetraplegica a cui mi dedicavo in particolare. Il tempo era davvero volato. Quando ci salutammo sulla porta mi invitò alla sua festa di compleanno di lì a pochi giorni, anch'io volevo rivederla. Due settimane dopo stavamo già insieme, innamorati cotti. Al congedo dal servizio civile andai direttamente a convivere con lei nella casa che i suoi genitori le aveva appena regalato. Passati altri tre anni ci sposammo. Passati altri quattro anni nacque Arianna. Passati altri tre anni mi lasciò per un altro uomo. Dolore. Disillusione. Nuova vita, sulle macerie di quella crollata.
Io in confronto sono ancora una bambina,è evidente che posso solo filosofeggiare magari senza cognizione di causa, senza un'esperienza concreta...
RispondiEliminaMa io nutro la certezza che il Caso non esiste. Come disse Einstein "Non posso credere che Dio giochi a dadi con l'universo",e al contrario credo fermamente nelle coincidenze significative. Credo che la Coincidenza sia il raggio incidente tra noi e il destino. Credere alle coincidenze e seguirle equivale a seguire il filo che collega le cose del mondo.
Forse è più facile credere a questo che al Caso, semplicemente perchè il Caso è come una variabile impazzita che non obbedisce ad una logica ed è fuorviante. Non per nulla anagrammando la parola esce "Caos".
L'unico modo per combattere questo caos-caso è avere la certezza che tutto il creato obbedisca alle leggi della causalità e non a quelle della casualità...
Insomma, credere in questo mi aiuta molto =)
E' la via più facile,senz'altro...
Non posso che essere d'accordo con tutto quel che dici.
RispondiEliminaSe sei rappresentativa di tutta la tua generazione, allora sì che c'è da essere ottimisti per il futuro!! :-)
Un abbraccio
Siete commoventi! E allora guardatevi "Se solo fosse vero"... a me è piaciuto tantissimo!!!
RispondiElimina@Alberto
RispondiEliminaSarà fatto, grazie! :)