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giovedì 9 aprile 2009

Cuor di Zagreo

Saluto con molto piacere la pubblicazione del primo libro di una mia amica. In bocca al lupo carissima Silvia!

Autore: Silvia Contini 
Titolo: "Cuor di Zagreo" - Il viaggio dell'anima: orfismo e miti escatologici in Platone 
Editore: Seneca Edizioni 
Collana: Manuzio 
Pagine: 328 
ISBN: 978-88-6122-146-8 
Prezzo: € 19,00

Riassunto (dal sito di Seneca Edizioni)

Socrate mostra di conoscere un’antica narrazione la quale “viene raccontata negli scritti segreti”, opera di “poeti ispirati dagli dei”, di “quelli che istituirono le iniziazioni” o, più concretamente, “di Museo e di suo figlio”, oppure di “quelli di Orfeo”. Secondo questo antico racconto, l’anima è immortale, ma porta con sé una certa colpa, probabilmente la morte di Dioniso ad opera dei Titani, per la quale deve subire un certo castigo sia in questo che nell’altro mondo, perché essa può subire diverse reincarnazioni. Durante il suo percorso in questo mondo, l’anima si trova reclusa dentro il corpo come se questo fosse una tomba, dato che ciò che l’anima vive in questo mondo non è una vita vera, ma una sorta di quiescenza, di morte. L’uomo deve ritornare alla sua origine divina, e reintegrarsi, in un cammino rituale di fede e conoscenza, recuperando la sua identità immortale attraverso il ricordo, l’anamnesi del suo percorso dal divenire al mortale. Nel suo tragitto, che appare quindi ribaltato, dopo la morte verso la vita, ora integrale e reintegrativa, l’anima si avvia verso le “case ben costruite dell’Ade”, prive ormai dei connotati tenebrosi che erano propri alla tradizione omerica, dimore alla cui destra scorre una fonte con accanto un bianco cipresso, fonte da cui, l’anima che vi giunge assetata di conoscenza, non deve bere, ma piuttosto attendere di dissetarsi alla palude di Mnemosyne, della Memoria (…), con il beneplacito dei Custodi, i quali chiederanno “al defunto di rivelarsi e giustificare la sua presenza nell’Ade”. Questo è il percorso escatologico dell’anima nell’oltretomba, secondo il quale “l’anima ha bisogno di ricordare per conoscere e conoscere per ricordare”, ed è questa la strada che viene indicata nelle lamine d’oro comunemente denominate ‘Orfiche’. Platone riferisce ai “seguaci d’Orfeo” (oi amphì Orphéa) l’aver definito il corpo “tomba dell’anima” (sēma tēs psychēs) e, allo stesso tempo, l’averlo definito “segno” (sēma) perché attraverso di esso l’anima si esprime (sēmaínei). Il corpo, allo stesso tempo, è la “custodia” (sōma) dell’anima la quale viene custodita (sōizētai) fino a quando non abbia scontato per intero i suoi debiti (Cratilo 400c). Il corpo viene dunque inteso come “carcere”, luogo di punizione dell’anima la cui liberazione coincide con l’affrancamento dell’anima dal ciclo di nascita e morte. La morte stessa, nella concezione greca, si definisce come stato di oblio, sonno, latenza notturna. Ma, come mostra il mito di Er, non si è morti fino a quando non sia bevuta l’acqua del fiume dell’oblio. In questo senso, sia la plaga infera di Lēthē che lo stesso Ade (Aidēs), diventano allegorie le quali, prescindendo dal fenomeno biologico e dal mito, rimandano a un concetto più profondo di “morte” e di “inferi”: la morte dell’anima, intesa come uno stato di cecità, o di offuscamento spirituale susseguente uno stato d’oblio. In altre parole, “morte” esprime uno stato completamente opposto a quello dell’iniziato, al quale è dato contemplare, in vita, le pure visioni e, dopo la morte, entrare a far parte del regno beato degli dèi. Dopo la morte, le anime si avviano verso le regioni dell’oltretomba e debbono attraversare Lēthē: la Pianura dell’Oblio. Lungo il cammino, sono tormentate da un tremendo calore e da un’afa opprimente. Per conseguenza, patiscono una sete violenta. La pianura di Lēthē é priva d’alberi e di ogni altro prodotto della terra feconda. Giunte alla pianura, le anime sono costrette a bere l’acqua del fiume Amelete, «la cui acqua non può essere contenuta in vaso alcuno». Tormentate dall’arsura, alcune bevevano di quell’acqua con avidità, altre smodatamente. Più ne bevevano, più rapidamente «si scordavano di tutto». Quelle che si lasciavano guidare dall’intelligenza, invece, ne bevevano in minor quantità. Il guerriero Er, che si trovava fra quelle anime, si ricordò del divieto che aveva ricevuto e non bevve affatto. Si risvegliò, senza saper come, sulla pira funebre dove stava per essere arso. Le anime che s’erano dissetate con l’acqua di Amelete (Amelēs), invece, ridestate dal tuono e dal terremoto, veloci «come stelle cadenti» tornavano sulla terra per rinascere in un nuovo corpo (Platone, Rep. 621a-c). Incatenato alla conoscenza profana, che è quella dei sensi coordinati dalla ragione, l’uomo vive alimentandosi della “morte del divino”, ma, nel suo vivere terreno, vive la propria morte come essere divino. Vittima dell’oblio –come chi ha bevuto l’acqua di Lēthē – convinto di vivere la propria vita, vive invece la propria morte. Nel suo quotidiano ridestarsi alla luce del giorno, chiude gli occhi dell’anima alla Luce per aprirli al triste tenebrore che regna nella terra dei morti. Morto prima di morire, continuerà a morire dopo la morte. E, tornando alla Repubblica platonica (621 c), la morte delle anime che hanno bevuto l’acqua dell’oblio consiste nel tornare di nuovo al ciclo di nascita e morte, dove nascere equivale a “morire”. Platone fa sua la concezione orfica che associa la morte all’oblio e la vittoria sulla morte al ricordo. Che la potenza di tale “morte” –analogica, per quanto riguarda la conoscenza– sia proprio l’oblio è dimostrato dal fatto che agli iniziati orfici, nel post-mortem, è prescritto di bere non alla corrente di Lēthē ma ad una fonte il cui nome suona l’esatto contrario di lēthē: Mnēmosýnē, la Fonte della Memoria, o del Ricordo: «E troverai alla sinistra delle case di Ade una fonte, e accanto ad essa un bianco cipresso diritto: a questa fonte non accostarti neppure da presso. E ne troverai un’altra, fredda acqua che scorre dalla palude di Mnēmosýnē: e davanti stanno i custodi (phýlakes). Di’ loro: Sono figlio della Terra e di Cielo stellante, inoltre la mia stirpe è celeste (emoì génos ouránion); e questo sapete anche voi. Sono riarsa di sete e muoio: ma date, subito, fredda acqua che scorre dalla palude di Mnēmosýnē. Ed essi ti lasceranno bere dalla fonte divina e in seguito tu regnerai assieme agli altri eroi…» (Laminetta di Petelia: Colli 4[A63]).

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